UN PIANETA CHIAMATO ITALIA

 

Finalmente il rollio delle ruote che toccano la pista.
Non riesco piú a sopportare questo giallo/blu dappertutto.
Purtroppo per arrivare quí non c’erano altre possibilitá.
Samuel dorme.
Non ha pianto mai.

Ho sempre amato la Panda, riaffiorano molti ricordi dal passato. Come avrei potuto scegliere altrimenti?
Ci buttiamo nel “traffico” della statale che ci porta verso l’entroterra.
Quando sei in viaggio ti accorgi di essere su una strada italiana perché le sue grigie infrastrutture contrastano con i colori dei luoghi.
Grigio Guardia di Finanza.
Come la giacca impolverata che presi dall’armadio di nonno Renato dopo la sua morte.
Altri tempi.

Vivo sentimenti contradditori: da una parte son felice di essere di nuovo in patria, dall’altra sento il senso di colpa per essermene andato e per non volerci tornare.
E poi mi rendo conto di aver lasciato una Italia che ormai non esiste piú.
Mi ricordo allegria, voglia di fare e costruire. Macinare chilometri in auto come in treno per vedere Morandi a Bologna, Richter a Prato, Villa Borghese a Roma o una mostra tremenda a Firenze.
Mi ricordo l’entusiasmo. Le persone curiose, affamate di bellezza e sempre alla ricerca di qualcosa.
Ora ho la sensazione di vedere le stesse persone intristite, chiuse in casa con la paura di poter fare un passo falso. Si va giusto alla Biennale o all’Expo perché si deve.
Un amico mi racconta di suo nonno. Lo ricorda felice nel ricevere una lettera dallo Stato: “Era una festa” dice “Era per qualche cosa di buono, mentre ora é sempre per qualcosa che non va”.
Poche parole semplici che dicono tutto.
Giusto due giorni prima di partire ho ricevuto una lettera della “Agencia Tributaria de España” e al vederla ho avvertito una pressione forte al torace ed allo stomaco. I polmoni chiusi. Un senso di malessere e nausea. Ho pensato “Non ce la faccio piú”…

Le strade son sconquassate, venate da rughe che ricordano il corso di torrenti in secca.
I guardrail arrugginiti. Primo autovelox modello fine anni novanta e poi altri due di ultima generazione.
Mi piacerebbe che la stessa cura che hanno per sanzionare i cittadini, pardon! Gli elettori, la utilizzassero per sistemare il manto della strada che sto percorrendo.

Fame.
Cerco ma non trovo nulla che mi ricordi un bar.
E poi a sinistra vedo un furgone mezzo scassato bianco con la scritta panini.
Son l’unica auto in circolazione.
Faccio inversione a “U” e mi butto nello sterrato parcheggiando nel bel mezzo, a due metri dal furgone.
Scendo e mi avvicino. Non c’é nessuno.
Aspetto che da un momento all’altro compaia Daisy con la sua camicia a quadrettoni aperta e annodata sotto il seno.

Poi da lontano un grido. Una ragazza sbraccia urla qualcosa ma che non riesco a comprendere.
Non assomiglia per niente a Daisy.
Si avvicina trotterellando mentre si lega i capelli con un nastro.
Entra della porta dal retro: “Ciao, sono Fabiana”.
Tutto cigola.
Fabiana ha una maglietta rossa, scollata, con due seni generosi che saltano fuori allegri. Il reggiseno sgualcito e dei jeans chiari. I capelli scuri, la pelle scura ed i lineamenti scolpiti nel legno. Lo sguardo forte e la pelle rovinata.
Per un momento mi sembra un personaggio della spagna profonda di Almodovar o una copia involgarita di Penelope Cruz in Jamon Jamon.
Mi fa due panini e mentre li fa si muove voluttuosa esibendo una sessualitá animale.
Claudia dall’auto lo nota ed al mio ritorno é un po’ incazzata.
Ed io, ammetto, sorrido sotto i baffi…

Dopo tanti tornanti in salita la strada iniza a scendere. In lontanaza si scorge quella linea blu di cui tanto avevo bisogno.
Supero un paesino arroccato tra i tornanti.
Alla nostra destra un villaggio semidiroccato. Mi affascina. Sembra di essere altrove. Mi sento Harrison Ford interpretando Indiana Jones.
E poi penso alle opere di Kiefer. Ed ai fantasmi.
La magia e la poesia del detrito racconta stracci di una storia che non si ripeterá mai piú
Questa lividezza mi porta a fantasticare.

Il paesaggio si apre.
Una forma color oro squarcia il verde compatto di una vegetazione fitta come il pelo di una pecora.
L’asfalto si sgretola per dar inizio ad uno sterrato disomogeneo che presto diventa di sabbia compatta.
Apro il finestrino e una ventata mi porta l’odor del mare assieme a quello fresco della vegetazione che sa di rosmarino e qualcos’altro che non riesco ad identificare.
Quindi le dune.
Enormi dune che riflettono il calore del sole davanti ad un mare arrabbiato che lancia le sue onde ad infrangersi per poi lasciare sulla battigia lunghe scie bianche e spumose.

A sinistra il Resort dove siamo ospiti.
Entriamo e ci accolgono premurosamente.
Ci prendono le valige per portarle nell’abitazione.
Qui la gente é meravigliosamente educata ed attenta. Ad essere sinceri tutte le persone che abbiamo incontrato nei giorni a seguire sono simili.
Non mi aspettavo tanto rispetto. É stupido lo so, ma mi commuove.
Questo popolo é un popolo di gente solida, forte.
Tanta naturale educazione mi spaventa e mi fa sentire un po’ misero.
Sono abituati ad un altro “calore” umano. A Milano come a Berlino, a Barcellona come a Roma o Madrid.
Eppure la cosa piú naturale e giusta sarebbe trattare ed essere trattati come fanno loro.

Arrivato in stanza una grande sorpresa: non c’é la televisione.
Son felice.
Posso pensare.
Libero.

Mi sconvolge sempre entrare in casa di amici che non hanno nè libri nè opere (il megaschermo non manca mai).
Mi sembrano vuote, inutili. Spazi senza sapore nè colore.
Con queste televisioni intronate come Napoleoni egocentrici.
La televisione ha il potere di cambiare le menti, renderle innocue, catechizzarle.
Il sistema di potere le vuole inerti: l’unica possibile sovversione é la cultura.
Ma ce ne siamo dimenticati. O forse non ce ne frega piú di tanto.
Giá tempo addietro ci pensarono i Prussiani a creare quello stesso sistema educativo di cui siam vittime oggi che ci dice cosa sapere, cosa studiare e a che ordini dover rispondere.

Quindi usciamo sul terrazzo.
Un immenso terrazzo rosaceo di trachite.
Vorrei togliere le scarpe e camminare a piedi nudi per assorbirne l’energia.
Ed intanto davanti a noi il sole inizia la sua discesa tingendo di mille colori caldi un cielo immenso.

Wide open.

Mi avvicino alla passerella in legno che solca la sabbia in linea retta puntando verso il mare.
Ed alla mia destra infilzato nella sabbia un pilastro sulla quale cima sventola nervosa la bandiera italiana.
Il lato che da al vento é slabbrato e lascia che alcuni fili color rosso frustino nell’aria liberi.

Qualche giorno dopo ci raggiungono dei cari, carissimi amici di Roma.
E mentre ceniamo con una cucina che non serve solo a saziare, ma bensí a nutrire corpo, anima e cervello; strutturata su sensazioni contrastanti, parliamo d’arte.
Dell’occasione che ha perso Roma con Jeff Koons, per colpa di amministratori inadatti al ruolo. Vorrei chiamarla miopia ma purtroppo nella buonafede non credo giá da un po’.
Ed intanto Roma esce sconfitta, l’Italia intera esce sconfitta mentre qualcuno a New York ringrazia sogghignando.
La mostra al Whitney fa sorridere, rende leggero lo spettatore e sdrammatizza.
Io non ho mai amato Jeff Koons. Le sue opere mi ricordano i bigné alla crema: il primo ti fa impazzire, il secondo ti piace, il terzo lo sopporti ed il quarto ti stucca.
Ma é solo una mia opinione, e sempre meglio che il circo di Koons avvicini le persone all’arte che la televisione le comprima nei divani di casa.

Il penultimo giorno Simone decide che bisogna fare il bagno nonostante le onde enormi.
Ci buttiamo.
L’impatto é elettrizzante.
L’acqua che sembrava fredda ora é carica di energia. Frizza intorno al corpo.
Mi sento rinascere.
Giochiamo con i cavalloni che si alzano davanti a noi come grosse colline d’acqua.
Nello spezzarsi ci travolgono: l’importante é uscire da sotto.
E mentre usciamo dall’acqua il mare ci spara addosso una mitragliata di sassi sulle caviglie.
Forse non vuole che lo abbandoniamo, ma é giá passata un’ora da quando siamo entrati e dobbiamo andare a pranzare.

L’ultima sera verso mezzanotte esco a veder le stelle. Non c’é nessuna luce. Il silenzio mi comprime i timpani.
Il cielo é nero nero e le stelle brillano come mi é capitatato di vedere solo dalle Alpi.
E poi il muggito dei cervi. Come un richiamo. O forse un saluto.
Respiro profondamente l’odore del mare.

E mentre la mattina seguente lascio il Resort per andare a prendere l’odioso aereo mi giro e guardo per un attimo.
Nell’oscuritá intravvedo il movimento dolce della bandiera.
La bandiera issata mi ricorda quella dello sbarco degli americani sulla luna.
Ma questa non é la luna. Questo é molto di piú: questo é un pianeta chiamato Italia.

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