San Francesco

Sul bordo del precipizio.
Vorrei potermi liberare di tutto quello che ho studiato, liberarmi della narrativa e della storia. Del perché e percome.
Per dire solo quello che vedo.

Il precipizio é senza fondo.
Quello che vedo é un opera del colore del tufo dove la porosità della tela assorbe i colori accompagnandoli nella penombra.
E la luce appoggiarsi sul saio. Avrebbe dovuto essere del colore della lana grezza, grigio. Ed invece é ocra, del colore della terra. O forse per essere tufo.
Mi ricorda una di quelle colonne massicce e tozze che sostengono gli edifici medioevali.
La luce si corica sul manto fino allo squarcio, sulla spalla. Un vuoto sulla tela, una voragine di luce dalla quale tutta l’immagine verrà risucchiata.
Questa lacerazione é il centro. Non solo del quadro ma dell’intero universo.

Guardo giù nel precipizio: nel fondo una luce che brilla più delle stelle.
Lo squarcio inchioda il Santo alla tela. Non lo lascia più scappare.
Il Santo ha tutti i capelli. Giotto é lontano. Il Santo é bello. Duro. Forte.
Mi ricorda qualcun’altro visto ad issare il crocefisso di San Pietro.
Mi ricorda quella testa urlante e stravolta penzolare dalla mano di un David appena adolescente ed efebico.
I capelli son pettinati. Forza, virilità e bellezza (vanità delle vanità).
La deturpazione non é ancora avvenuta. L’umiltá non ha ancora preso il sopravvento.
Ma il Santo é Santo comunque e l’aureola vola leggera disegnando una linea decisa che taglia la tela come farebbe un bisturi incidendo la carne. Ma non c’é più sangue. La ferita é guarita. Rimane solo l’astrattezza di una linea che incide la realtà con la sua perfezione. Anche lei vive di riflesso di quel vortice di luce che la risucchia.
La testa dalla morfologia perfetta mostra un volto anch’esso scolpito nella pietra. Forse marmo questa volta. L’orecchio a fuoco. Ascoltate dice. Eppure c’é solo silenzio. Non c’é rumore. Forse solo il rumore dei nostri pensieri. E poi tutto sfuma un’altra volta nell’ombra.

Dal precipizio l’abisso sale.
La fronte corrugata disegna dei solchi che che sono come la memoria. Dove il nostro pensiero passa e ripassa interminabilmente. Pensieri ricorrenti scavati nel profondo della nostra mente e del cuore. Gli occhi socchiusi dovrebbero guardare. Ma é un guardare che é più come un sentire introverso. Non c’é pathos, Guercino é lontano.
Un sentire dentro. come la pittura che sicura si appoggia a secco, velatura dopo velatura. Delicatamente.*
Quella delicatezza che racchiude la durezza e la violenza di un disegno netto che delimita i confini della forma non lasciandogli scampo. Lo stesso segno di Piero.
Il pensiero astrae per poter analizzare.
Il naso punta verso le mani, se ne vede solo una; grassoccia direi. Di primo acchito penso gli sia venuta male. Il pollice é goffo. Guardo le mie mani. Sono simili. E mi ricordo che Caravaggio era Lombardo.
Cosa tiene in mano non lo so. Vorrebbe essere un teschio ma mi ricorda di più la scultura di un teschio. Una imitazione insomma, qualcosa di finto. Marmo di Carrara. O qualcosa che ha perso la volgarità della realtà per diventare eterno?
Contrasta con quelle mani da contadino.
E quel braccio é come il tempo, uno straccio di tempo, un vincolo obbligato. Quel poco tempo che ci é dato per esistere. Essere. Solo essere perché il non essere non é un problema.

Il precipizio si apre all’infinito.
Ed in quel respiro di tempo essere grandi. Compiere il proprio destino. Dare un senso. Essere fino in fondo.
E poi quella croce buttata lí, in un angolo. Gettata. Caduta. O pronta ad essere issata?
No, gettata come la morte che cede alla vita. Perché dalla morte nasce la vita.
La morte nutre la vita come una madre il figlio.
Croce illuminata da una fonte esterna al quadro. Teatro (messa in scena del soggetto).
Una sagoma. Ritagliata.
Ci si aspetterebbe una croce fatta di rami, un po’ storta. Eppure le sue linee sono dritte. Nette, chiare come il disegno di quell’orecchio che ascolta il silenzio.
Vorrebbe essere di legno. Ma non lo é. É un simbolo. Una astrazione. Un ennesimo chiodo che serve a fissare l’immagine nell’eternità. Inchiodarla alla alla superficie della tela ed alla sua finzione.
Ci sono finzioni (qualcun’altro le chiamó menzogne) che ci rendono più vicino alla verità.

L’abisso é immenso.
E poi vedo tutte quelle indecisioni. Son la prima cosa che ho visto. Forse la cosa più importante. Ma il meglio viene sempre per ultimo.
Errori forse? O forse no.
L’opera ha una sua logica che sfugge alle strutture umane di interpretazione.
Il fondo sembra cartapesta. La piega del tessuto sotto il braccio irreale, la pietra su cui poggia la croce una cosa abbozzata giusto per metterci qualcosa. L’aureola tanto astratta come storta. Sembra aver preso una botta. Il teschio che non sembra tale (noi sappiamo che é un teschio). Ed il braccio della croce che si avvicina al santo che termina in un angolo che contraddice le regole prospettiche.
Non posso evitare di vederlo.
L’occhio si ferma su quella linea errata.
Quell’errore che mi inchioda sulla tela assieme al Santo.
E poi penso che in fondo tutti questi errori fan parte del quadro. Rendono l’opera viva. Umana. Fanno in modo che l’occhio dello spettatore si muova come in un vortice verso il punto centrale. Quello squarcio iniziale.
La verità é che quest’opera non é una di quelle opere che un artista fa con entusiasmo. Non conosco la storia del quadro. Quello che vedo é un’opera fatta perché si doveva fare. Una commissione scomoda forse.
Ci sono opere che gli artisti non hanno nessuna voglia di fare. Ma é proprio in quelle opere che si conferma la grandezza di un artista. La capacità di aggirare l’ostacolo per poter godere del proprio lavoro.
Tutti questi errori non fan altro che riportarci a dove il quadro trova il suo centro. Lo squarcio sulla spalla. E di seguito in quella testa, inclinata leggermente sul piano frontale come sagittale in un “tre quarti” introspettivo, delicato. E se non conoscessi il soggetto, direi dolce.
É un opera che racchiude un mistero. E questo mistero la rende grande.
E davanti a questo mistero tutti i dubbi vengono spazzati. Perché questo San Francesco non rappresenta più solo un Santo, ma bensì l’intera umanità e l’intera storia.
Essere.
É un’opera che arriva con delicato stupore, per poi trascinarti in un vortice di incongruenze ed infine spalancare la mente all’immensità.

Il precipizio si riempie di stelle come il rovescio del cielo.
Davanti alla grandezza ci si sente sempre un po’ piccoli… ma forse é proprio questo il problema: poter star di fronte a questa grandezza e rendersi conto di quanto é meravigliosa.

*Immagino. Perché il quadro non l’ho mai visto. Solo riprodotto. E quando lo vedrò so che la pittura, quella magia fatta da infinite decisioni, dalla volontà creatrice di voler esistere colpo dopo colpo mi sorprenderà un’altra volta.

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